L'Italia è ancora una Repubblica democratica?
La risposta è no.
Nel nostro paese vige una nuova forma di potere:
il Totalitarismo rovesciato.
In questa serie di video analizzeremo in cosa consiste questa nuova forma di potere; come, quando e perché si è imposta; come opera, quali sono i suoi strumenti, cosa vuole raggiungere e, sopratutto, come poterla contrastare.
Trascrizione primo video l’Italia e il
Totalitarismo.
Esiste ancora la democrazia in Italia o
questa è lentamente degenerata in qualcosa di altro? E se sì, in cosa?
Secondo
Sheldon Wolin, professore di scienze politiche all’Università di Princeton,
Berkley, nonché uno dei maggiori e più influenti filosofi politici americani,
quella che molti chiamano ancora democrazia in realtà si è lentamente
trasformata in una nuova forma di potere.
Wolin
definisce questo nuovo potere totalitarismo rovesciato, ovvero una forma di totalitarismo che, rivolto all’interno
del paese, tende allo svuotamento della democrazia per giungere al
controllo totale della nazione.
Il totalitarismo, ricordiamolo, è il tentativo di realizzare una concezione ideologica e idealizzata
di una società come un tutto sistematicamente ordinato, dove le parti
(famiglia, Chiesa, istruzione, vita intellettuale culturale, economia, svago,
politica, burocrazia pubblica,) vengono premeditatamente, addirittura
forzatamente se necessario, coordinate per sostenere e promuovere i propositi
del regime.
La nuova forma di potere
definita da Wolin totalitarismo rovesciato, pur appartenendo allo stesso
sistema di potere totalitario classico, ne rappresenta una tipologia distinta
con alcuni parallelismi, alcune notevoli somiglianze ma anche fondamentali
differenze.
Quali sono, secondo Wolin, i tratti
essenziali di questo totalitarismo rovesciato?
Innanzitutto la commistione tra sfera
pubblica e sfera privata, tra politica e affari”.
Quindi la smobilitazione delle masse,
ossia i cittadini vengono progressivamente smobilitati, e
portati ad assistere più che partecipare alla vita politica.
Cittadini che vengono portati ad
abbracciare una cultura che privilegia il principio di piacere rispetto al
principio di realtà, che alimenta desideri e i sogni di massa a cui il
cittadino tende, aiutato in questo dalla formazione di paure esterne,
che rafforzeranno l’involuzione del sistema democratico verso
questa nuova forma di controllo.
I principali strumenti che usa per imporsi
questo totalitarismo rovesciato sono:
- il potere
mediatico,
- il consumo come
principale attributore di senso della vita per i cittadini
- l’appello
diretto al “popolo” contro gli intralci delle istituzioni e delle regole,
- la costruzione
di miti
Secondo Wolin non solo in America, ma
anche molte delle c.d. democrazie oggi presenti sul pianeta, si sono
trasformate in realtà in un totalitarismo rovesciato.
E l’Italia è ancora, come recita l’art. 1
della costituzione, una Repubblica democratica o, in realtà, si è trasformata
in un totalitarismo rovesciato?
E se si è trasformata in un totalitarismo
rovesciato, e diciamo subito che è proprio così, come è avvenuto, quando è
cominciato, come e, soprattutto, cosa si può fare per uscire da questa
situazione?
Per rispondere a queste domande iniziamo
quindi la nostra analisi che, per comodità e fruibilità, sarà divisa in parti,
ovvero video.
Infatti l’analisi richiederà un po’ di
tempo perché, per capire come uscire da un problema, si deve capire come e
quando questo nuovo e subdolo sistema di potere e di dominio si è creato,
conoscerne le cause, saper individuare le modalità con cui questo si è imposto,
e continua ad imporsi, nonché gli effetti che ha sulla nazione.
Infatti, se non si impara a conoscerlo e
riconoscerlo, difficilmente si potrà capire quale potrà essere una possibile e
valida soluzione al problema.
Abbiamo detto che il totalitarismo
rovesciato, rispetto al totalitarismo classico, presenta alcune notevoli
somiglianze, ma anche fondamentali differenze. Vediamole.
La prima fondamentale
differenza è che I regimi totalitari del ‘900 erano alimentati da movimenti
rivoluzionari il cui scopo era occupare, ricostruire e monopolizzare il potere
statale.
Lo Stato era concepito
come il centro del potere, da cui scaturivano le leve necessarie per la
mobilitazione e la ricostruzione della società.
Chiese, università,
organizzazioni imprenditoriali, mezzi di informazione e istituzioni culturali
venivano occupate dal governo, oppure neutralizzate e soppresse.
Nel totalitarismo
classico la conquista del potere totale era l’obiettivo consapevole di leader
di precisi movimenti politici.
Ogni sistema era
inseparabile dal suo Fuhrer o Duce.
Il totalitarismo rovesciato segue un
percorso completamente diverso: il leader non è l’architetto del sistema ma il
suo prodotto.
È il figlio prediletto e malleabile del
privilegio, dei rapporti d’affari, un prodotto dei maghi delle pubbliche
relazioni e dei propagandisti di partito.
Così, se i regimi totalitari classici
erano fondamentalmente emanazione di un leader carismatico e il regime era
inconcepibile senza la sua impronta, il totalitarismo rovesciato, viceversa, è
sostanzialmente indipendente da un particolare leader che, peraltro non ha
bisogno di un particolare carisma personale, questo perché non è il suo
architetto, ma un prodotto del sistema e, in quanto tale, il sistema gli
sopravvive.
Ma se il leader è il prodotto del
totalitarismo rovesciato, chi è l’architetto di questa nuova forma di potere?
Chi ne è alla guida?
Il totalitarismo rovesciato è guidato da
poteri totalizzanti astratti e non dal dominio personale.
E qui veniamo alla seconda sostanziale
differenza tra i due totalitarismi.
Nel totalitarismo classico infatti
l’economia era subordinata alla politica. Nel totalitarismo rovesciato è
esattamente il contrario: sono l’economia e la finanza che dominano sulla
politica e che, quindi, la guidano.
E ciò ha diverse conseguenze.
Innanzitutto perché, se sono i poteri
economici e finanziari a guidare lo Stato i suoi obiettivi non sono ovviamente
quelli democratici della promozione del benessere dei cittadini o del loro
coinvolgimento nei processi politici, ma la protezione delle élite e del
profitto, ovvero del potere economico privato.
Per Wolin infatti il totalitarismo
rovesciato è l’unione di Stato e impresa in un’epoca di declino della
democrazia e di analfabetismo politico.
La democrazia si è cioè trasformata,
ridimensionando il suo ruolo da principio fondante, a funzione sostanzialmente
retorica all’interno di un sistema politico sempre più guidato non più da
professionisti della politica, ma da uomini presi in prestito dal mondo degli
affari, della finanza, dell’impresa, per non parlare dello stratagemma dei consulenti.
Attenzione però perché quello dell’uomo
d’affari non è un concetto neutro: le sue radici affondano nella cultura del
business, questi ha come obiettivo il business, il profitto e non il bene
comune, e i suoi valori sono definiti dalle pressioni di un’economia
competitiva che forza continuamente i limiti della legalità e delle norme
etiche.
L’impresa è rappresentata dalla cultura
antipolitica della competizione che prevale sulla cooperazione, la cultura
della sopraffazione del rivale, nel lasciarsi dietro carriere devastate e
comunità in frantumi.
Una cultura che accetta come un assioma il
fatto che i massimi dirigenti debbano essere, innanzitutto, competitivi e
orientati al profitto: la redditività dell’impresa come entità singola è più
importante di qualsiasi sintonia con la società nel suo complesso.
Vedremo poi con alcuni esempi specifici
come questa distorsione si sia realizzata in Italia.
Ma, per ora, basti pensare le grosse
catene commerciali che rappresentano un potere invasivo e totalizzante:
continuano a costruire presidi nelle comunità locali, annientando le piccole
imprese che non riescono a competere, determinano prezzi, salari, modelli di
consumo, il benessere e la povertà dei singoli, il destino di interi quartieri,
città e nazioni.
Impossibile competere, perché molte grandi
multinazionali hanno risorse che sfiorano, se non superano, quelle di quasi
tutte le piccole nazioni del mondo.
Dunque una superiorità schiacciante che,
però, persegue il profitto e non il benessere della società.
Questo accade quando il potere economico e
finanziario dominano sul potere dello Stato.
Perché?
Perché il mercato smette di essere
un’entità contrastante e distinta dal potere dello Stato diventando non il suo
prolungamento ma, viceversa, diventando la mano invisibile delle politiche
pubbliche.
E cosa vuol dire dare in gestione la cosa
pubblica a uomini d’affari?
Innanzitutto è un dato di fatto che tra la
prima e la seconda Repubblica la corruzione sia aumentata, e ciò sorprende
molti.
Ma non deve sorprendere perché era una
conseguenza assolutamente non solo prevedibile, ma certa.
La corruzione è quasi una costante nel
mondo degli affari, dunque se un sistema politico viene affidato a uomini
d’affari la conseguenza è che la corruzione ne diviene una delle componenti
principali.
Certo, la corruzione vi era anche nel
totalitarismo classico ovviamente ma, nel totalitarismo rovesciato, questa è
endemica.
E così non deve sorprendere che, grazie a
questa supremazia del potere economico e finanziario sullo Stato, l’esercizio
del potere da parte di questi uomini d’affari sia costellato di reati e abusi
come: frodi, menzogne, condotte ingannevoli, bonus straordinari a dispetto di
fallimenti, e così via.
Comportamenti che, ovviamente, sono stati,
e vengono, perpetrati senza che alla popolazione venga dato dallo Stato alcuno
strumento utile e necessario per perseguire i suddetti reati.
Ma, anche questo è normale.
Quando l’economia e la finanza dominano la
politica è ovvio che alla popolazione non vengano date, dal legislatore
compiacente a questo tipo di potere, vedremo poi come e perché, norme
inadeguate per contrastarlo o renderlo responsabile.
Prendiamo ad esempio i reati ambientali,
sono ancora oggi prevalentemente contravvenzionali e, quindi con sanzioni
minime.
Se poi ci mettiamo quel capolavoro della
prescrizione, le aziende sanno perfettamente che, anche ove si aprissero dei
processi nei loro confronti, non rischiano nessuna condanna, ed anche questo ci
viene continuamente confermato dalle sentenze dei tribunali.
Il prezzo di questo dominio, ovviamente, è
il declino dell’etica pubblica.
Ma non solo.
L’assenza del conflitto di interessi non
viene praticamente più invocata, e tanto meno rispettata come
principio di virtù pubblica.
Ideali come: libertà accademica, il
distacco della comunità scientifica dal mercato della politica, l’imparzialità
dei giuristi, ecc., tutte cose che un tempo erano considerate valori
indispensabili ai fini della scoperta della soluzione migliore su temi che
investivano gli interessi e il benessere della società nel suo complesso, oggi
non esistono più.
Per secoli politici e politologi, a
cominciare da Platone nella Repubblica, hanno sottolineato
come la caratteristica fondamentale di chi riceve in affidamento il potere
pubblico sia l’esercizio di questo potere in modo disinteressato, e non per
tornaconto personale.
Era il concetto del servitore dello
Stato disinteressato e dedito soltanto il bene comune, un tempo nobile
aspirazione.
Ora se si parla di questo ideale si viene
derisi.
Il posto del servitore dello Stato è ora
dell’uomo d’affari la cui lealtà è al business, ovvero al tornaconto personale,
altrettanto a suo agio al Dipartimento della difesa, oppure dal fedele di
partito, premiato proprio per la sua fedeltà che dovrà continuare a mostrare
anche nel ruolo di funzionario pubblico.
Questa supremazia dell’economia sulla
politica comporta anche che si assiste sempre più ai politici danno le
dimissioni per accettare incarichi profumatamente retribuiti nelle aziende,
mentre dirigenti delle aziende si mettono in aspettativa per dirigere dicasteri
di governo e determinarne le politiche, o, ancora, alti ufficiali
dell’esercito che vengono assunti dalle grandi imprese, diventano commentatori
in tv, o si candidano alle elezioni.
Ma non sono certo queste le qualità che si
chiedono chi giura di proteggere e difendere una costituzione caratterizzata da
poteri limitati e da un sistema di controlli e contrappesi.
Il presupposto cruciale della democrazia
è, meglio dire era, che il governo fosse costituito da una serie d’istituzioni
senza scopo di lucro la cui responsabilità fondamentale era promuovere il
benessere generale.
Il criterio di valutazione era politico
non economico.
Il bene comune non il bilancio.
I funzionari pubblici venivano descritti
in termini democratici come servitori dello Stato i cui ranghi erano aperti a
chiunque fosse qualificato e dedito a perseguire non fini personali ma
difendere a migliorare la vita dei cittadini.
Il servitore dello Stato era lo strumento
attraverso cui si realizzava la democrazia, i cui valori erano l’uomo
prima di tutto, la collettività, l’eguaglianza.
Il servitore dello stato mirava
all’eccellenza non alla superiorità. Sono due concetti molto diversi.
Ed aveva un compito, una missione che era
il servizio disinteressato per il bene comune e non per l’accumulo di
ricchezze.
Oggi non abbiamo più il servitore dello
Stato, abbiamo l’uomo d’affari, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Altro punto.
Una volta le aziende dipendevano dallo
Stato per moltissimi aspetti: per appalti, finanziamenti e protezioni o per la
creazione di opportunità di investimenti all’estero.
Oggi questa dipendenza si è ridotta
drasticamente perché il potere economico privato ha avocato a sé sempre più
funzioni e servizi pubblici, molti dei quali erano precedentemente considerati
appannaggio del potere dello Stato.
Basti pensare alle privatizzazioni.
La privatizzazione è diventata la regola
mentre l’intervento pubblico, contrario ai desiderata delle imprese, è
diventata l’eccezione.
Attenzione però, perché la privatizzazione
risulta essere una delle componenti principali di questa nuova forma di potere
perché, andando a cedere funzioni sostanziali, un tempo esaltate come conquiste
del popolo, uno Stato indebolisce non solo la sua componente politica, ma anche
il suo stesso contenuto democratico.
Perché dico questo. Perché la conseguenza
dell’espansione del potere privato, ma soprattutto delle imprese, è l’abdicazione
selettiva, cioè nei vari comparti privatizzati, della responsabilità pubblica
al benessere e alla tutela dei cittadini.
Abbiamo visto, e vediamo tutti i giorni,
come il privato, anche grazie ad una legislazione compiacente, sia, nella
maggioranza dei casi, assolutamente irresponsabile dei danni prodotti al bene
comune e, viceversa, come sia assolutamente facilitato nel perseguire il
profitto.
La strategia dei sostenitori della
privatizzazione è, in primo luogo, screditare le funzioni di welfare bollandole
come socialismo inefficiente e, quindi, cedere queste funzioni a un concorrente
privato o privatizzarne una parte.
Le conseguenze delle privatizzazioni oggi
sono sotto gli occhi di tutti, ma ricordiamo come andarono le cose, sia per
capire meglio come opera il totalitarismo rovesciato, sia perché oggi si torna
prepotentemente a parlare di privatizzazioni.
Il 29 gennaio 1992 venne
emanata la legge n. 35/1992 (Legge Carli – Amato) per la privatizzazione di
istituti di credito ed enti pubblici.
La motivazione ufficiale data ai cittadini
per questa operazione di privatizzazione fu che, dato l’elevato debito pubblico
che andava ridotto, vi era la necessità di vendere quelle aziende pubbliche in
perdita che aggravavano la situazione.
Inoltre, per uno strano gioco del destino
proprio nel momento in cui le imprese pubbliche vennero messe sul mercato la
lira, a seguito di forti speculazioni, si svalutò.
Ricordiamo quel momento e cosa accadde.
Nel 1992 il finanziere americano
George Soros lanciò un attacco speculativo contro la lira.
La nostra moneta, in una sola
estate, perse il 20% del suo valore rispetto al Marco tedesco.
La Banca d’Italia, guidata da Carlo
Azeglio Ciampi, nel tentativo di non svalutare la nostra moneta, aumentò per
tre volte in sette mesi il tasso di sconto ma la manovra, che portò a bruciare
48 miliardi di dollari di riserve, si rivela assolutamente inefficace.
Il 13 settembre con una diretta
televisiva, il presidente del consiglio Amato comunicò agli italiani la
svalutazione della lira e l’uscita della nostra moneta dallo SME (Sistema
Monetario Europeo).
Il Governo, per far fronte alla grave
crisi economica, fu costretto a varare una manovra finanziaria da 93.000
miliardi che previde, tra le altre cose, la privatizzazione degli enti
pubblici.
Ma non solo, anche l’aumento dell’età
pensionabile, aumento dell’anzianità contributiva, blocco dei pensionamenti,
minimum tax, prelievo sui conti correnti bancari, introduzione dei ticket
sanitari, tassa sul medico di famiglia, imposta comunale sugli immobili (Ici),
blocco di stipendi e assunzioni nel pubblico impiego, ecc.
Ma tutto ciò non bastò e, l’attacco
speculativo contro la lira proseguì con conseguenze devastanti.
Soros, recentemente intervistato
sull’attacco speculativo portato alla nostra moneta nel 1992[1] ha
affermato: «L’attacco speculativo contro la lira fu una legittima
operazione finanziaria. Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, che
dicevano che la banca tedesca non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava
saperle leggere. Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste
semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano”.
Certo, come dicevamo prima, l’uomo
d’affari segue regole completamente diverse, segue il profitto non il bene
comune, la sua lealtà è al business, non al benessere della collettività. Ecco
perché è devastante anche solo pensare di poter gestire uno stato come
un’impresa o sostituire il politico con l’uomo d’affari.
Ma andiamo avanti.
In questa situazione di lira svalutata
iniziarono le privatizzazioni. Ottimo per gli acquirenti, meno per lo
stato.
Attenzione perché l’operazione di
privatizzazione portata avanti dall’Italia è stata, secondo la relazione del
2010 della Corte dei Conti, che si ferma nella sua analisi al 2007, tra le più
grandi al mondo: Fermandosi al 2007, le privatizzazioni italiane si
collocano al secondo ed al quinto posto a livello globale, rispettivamente in
termini di proventi e di numero di transazioni (Tabella 2). Per quanto riguarda
i proventi aggregati, sopravanza l’Italia solo il Giappone che ha raccolto la
maggior parte degli introiti attraverso poche operazioni di grandi dimensioni
effettuate a metà degli anni ‘80 durante un periodo di mercato molto favorevole”.
Seconda al mondo per proventi e quanta per
transazioni.
Ed Infatti il numero di aziende vendute, o
meglio sarebbe dire, vista anche la svalutazione della lira, svendute fu
impressionante.
Telecom, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina,
Credito italiano, Autostrade, Agip Argentina, Cirio-Bertolli-De Rica,
Pavesi, Nuova Pignone, SME, Aeroporti di Roma, Alfa Romeo Avio, Banca di Roma,
SEAT, AEM, Alitalia, BNL, Banca MPS, Mediocredito Centrale, Finmeccanica,
Autogrill, GS, EniChem Augusta, Italstrade, ecc.
Come noterete molte delle aziende che ho
citato sono state poi, divenute private, protagoniste di molti scandali e
conseguenti processi, senza particolari conseguenze per gli imputati
naturalmente, a conferma di quello che dicevamo prima, ovvero di come il privato,
dedito al business e al profitto sia portato per cultura a forzare
continuamente i limiti della legalità operando attraverso la corruzione, frodi,
inganni, ecc.
Nella versione ufficiale data dal governo
di allora per operare queste privatizzazioni venne detto che le aziende da
privatizzare dovevano essere quelle che rappresentavano una zavorra viste le
perdite per lo stato italiano. Era vero? NO
Il 68% delle imprese privatizzate, appartenendo
ai settori bancario-assicurativo e delle telecomunicazioni, era in attivo
e dunque non rappresentavano una zavorra, ma una fonte di entrate costanti per
le casse dello Stato.
Altra giustificazione che venne data dal
governo era consentire il rafforzamento della grande industria italiana che
doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione
internazionale al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali
nazionali.
Anche queste motivazioni si sono, poi,
rivelate pretestuose e mendaci.
Molte industrie, poi, hanno trasferito gli
stabilimenti all'estero e dunque tutto hanno fatto tranne che consolidare gli
assetti produttivi e le occupazioni nazionali.
Un’altra favole che venne raccontata ai
cittadini all’epoca delle privatizzazioni del ’92 per giustificare
era quella di voler favorire un azionariato diffuso. Ricordate? Chiunque può
comprare azioni, controllare, andare ai consigli di amministrazione con chissà
quali promesse. Nella realtà cosa è successo? Che le privatizzazioni si sono
caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli
investitori (o loro “cordate”).
Per non parlare poi delle OPA, che hanno
permesso ad alcuni l’uomo d’affari di farsi prestare i soldi dalle
banche per rastrellare la maggioranza delle azioni e, poi, hanno girato
quell’indebitamento sull'azienda acquistata.
Chi ha fatto questa operazione, questi l’uomo
d’affari ha quindi rivenduto tale acquisizione guadagnando sulla
plusvalenza con la conseguenza che i manager, ovvero coloro che avrebbero
dovuto risollevare le sorti di quelle aziende mal amministrate che
rappresentavano un costo per lo Stato, hanno sostanzialmente comprato le
aziende senza spendere una lira, le hanno rivendute e il loro guadagno non è
stato tassato.
Ma ancora non basta, perché
l'indebitamento con le banche, riversandolo sull’azienda è rimasto a carico
degli utenti, che lo pagano gli utenti con tariffe maggiorate.
Ed eccoci ad un altro punto. Infatti ai
cittadini era stato anche detto che la privatizzazione e liberalizzazione dei
mercati avrebbe prodotto un calo dei prezzi e una migliore efficienza. Ma anche
questo si è rivelato falso come conferma la Corte dei Conti.
La Corte dei Conti, in una relazione
del 2010 sugli Obiettivi e risultati delle operazioni di
privatizzazione di partecipazioni pubbliche, evidenzia anche come: «Per
quanto riguarda le utilities, c’è tuttavia da osservare che l’aumento della
profittabilità delle imprese regolate è in larga parte dovuto, più che a
recuperi di efficienza sul lato dei costi, all’aumento delle tariffe che,
infatti, risultano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti
degli altri paesi europei, senza che i dati disponibili forniscano conclusioni
univoche sulla effettiva funzionalità di tali aumenti alla promozione delle
politiche di investimento delle società privatizzate. Considerazioni analoghe
possono valere anche per ciò che attiene agli effetti sul livello sia delle
tariffe autostradali, sia degli oneri che il sistema bancario pone a carico
della clientela, tutt’oggi sistematicamente e considerevolmente più elevato di
quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei».
In altri
termini le maggiori entrate di queste aziende non sono state prodotte da una
migliore efficienza del servizio, ma unicamente dall’aumento delle tariffe.
Perché? Perché le maggiori entrate non sono state investite nell’azienda, come
rileva la Corte dei Conti. Ma, questo poteva farlo anche lo Stato, poteva
aumentare le tariffe senza migliorare l’efficienza e continuare ad incassare
dal momento.
Ma anche questo era prevedibile e normale,
al manager interessa il profitto non il miglioramento del prodotto o
l’efficienza del servizio né, tanto meno, il bene comune.
Ma ancora non basta perché chi governava non ha neanche gestito bene questa
immensa opera di privatizzazione, ricordiamo una delle più grandi al mondo,
come sottolinea anche la Corte dei Conti: L’esame delle modalità con
cui il processo di privatizzazione si è svolto evidenzia una serie di
importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal
loro incerto monitoraggio alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle
procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del
quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors
ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella
riduzione del debito.
Così i prezzi sono aumentati, si sono
persi posti di lavoro e chiusi impianti produttivi.
Il tutto a scapito della società ed a
vantaggio delle aziende.
In altri termini le privatizzazioni cosa
hanno prodotto? una socializzazione delle perdite ed una privatizzazione dei
profitti.
Ovvero l’uomo d’affari è riuscito a creare
un meccanismo che gli permette, se guadagna di intascare e se perde di chiedere
che sia la collettività a pagare.
Ma anche le c.d. Liberalizzazioni hanno
avuto impatto negativo, pensiamo solo alla normativa di liberalizzazione
in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 che ha
permesso a poche grandi catene commerciali di impossessarsi del 70% del
mercato. Ciò ha comportato la moria delle piccole attività commerciali,
Il risultato di tutto ciò, ovvero in
questi anni di politiche liberiste, è stato la crescita economica del nostro
paese si è ridotta del 72% dal 1991 ad oggi, e la capacità di crescita della
produzione industriale italiana è diminuita di oltre due terzi.
Le liberalizzazioni-privatizzazioni non
hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano
pubblica – dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – nelle mani
di privati, con un conseguente netto impoverimento dello Stato e dei cittadini.
Ma non solo.
Infatti, come dicevamo prima, andando a
cedere funzioni pubbliche sostanziali al privato uno Stato non solo si
indebolisce politicamente ma, cosa ancora più grave, abdica alla sua funzione
di responsabilità pubblica al benessere e alla tutela dei cittadini, funzione
che non viene certo svolta dal privato.
Ci fermiamo qui. Nel secondo video
prenderemo in esame le modalità e i passaggi cruciali con cui l’economia e la
finanza si sono imposte sulla politica e sullo Stato italiano divenendo la mano
invisibile delle politiche pubbliche
.