lunedì 20 aprile 2015

L'Italia ed il Totalitarismo rovesciato. Modelli economici.



Quando e come l’economia e la finanza sono diventate la mano invisibile delle politiche pubbliche?

Quale modello economico abbiamo oggi?

Ma, sopratutto, a cosa servono veramente l'Austerity e la Spendind review? 

Per capirlo dobbiamo fare un salto indietro, ovvero dobbiamo andare ad analizzare, seppur sinteticamente, i modelli economici che si sono succeduti, nell’ambito ovviamente dell’alleanza occidentale, a livello internazionale e nazionale.










IL CAPITALISMO ESPANSIVO
(1944-1979)









IL LIBERO MERCATO
(1979-1992)






IL CAPITALISMO FINANZIARIO
(1992-2001)







I DERIVATI
(2001-2008)






IL CAPITALISMO ULTRA-SPECULATIVO
(2008-2015)




Trascrizione dei video.


domenica 12 aprile 2015

L'Italia e il totalitarismo




L'Italia è ancora una Repubblica democratica? 
La risposta è no. 

Nel nostro paese vige una nuova forma di potere: 

il Totalitarismo rovesciato.

In questa serie di video analizzeremo in cosa consiste questa nuova forma di potere; come, quando e perché si è imposta; come opera, quali sono i suoi strumenti, cosa vuole raggiungere e, sopratutto, come poterla contrastare.









Trascrizione primo video l’Italia e il Totalitarismo.

Esiste ancora la democrazia in Italia o questa è lentamente degenerata in qualcosa di altro? E se sì, in cosa?
Secondo Sheldon Wolin, professore di scienze politiche all’Università di Princeton, Berkley, nonché uno dei maggiori e più influenti filosofi politici americani, quella che molti chiamano ancora democrazia in realtà si è lentamente trasformata in una nuova forma di potere.
Wolin definisce questo nuovo potere totalitarismo rovesciato, ovvero una forma di totalitarismo che, rivolto all’interno del paese, tende allo svuotamento della democrazia per giungere al controllo totale della nazione. 
Il totalitarismo, ricordiamolo, è il tentativo di realizzare una concezione ideologica e idealizzata di una società come un tutto sistematicamente ordinato, dove le parti (famiglia, Chiesa, istruzione, vita intellettuale culturale, economia, svago, politica, burocrazia pubblica,) vengono premeditatamente, addirittura forzatamente se necessario, coordinate per sostenere e promuovere i propositi del regime.
La nuova forma di potere definita da Wolin totalitarismo rovesciato, pur appartenendo allo stesso sistema di potere totalitario classico, ne rappresenta una tipologia distinta con alcuni parallelismi, alcune notevoli somiglianze ma anche fondamentali differenze.
Quali sono, secondo Wolin, i tratti essenziali di questo totalitarismo rovesciato?

Innanzitutto la commistione tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica e affari”.

Quindi la smobilitazione delle masse, ossia i cittadini vengono progressivamente smobilitati, e portati ad assistere più che partecipare alla vita politica.

 Cittadini che vengono portati ad abbracciare una cultura che privilegia il principio di piacere rispetto al principio di realtà, che alimenta desideri e i sogni di massa a cui il cittadino tende, aiutato in questo dalla formazione di paure esterne, che rafforzeranno l’involuzione del sistema democratico verso questa nuova forma di controllo

I principali strumenti che usa per imporsi questo totalitarismo rovesciato sono:
-          il potere mediatico,
-          il consumo come principale attributore di senso della vita per i cittadini
-          l’appello diretto al “popolo” contro gli intralci delle istituzioni e delle regole,
-          la costruzione di miti

Secondo Wolin non solo in America, ma anche molte delle c.d. democrazie oggi presenti sul pianeta, si sono trasformate in realtà in un totalitarismo rovesciato.

E l’Italia è ancora, come recita l’art. 1 della costituzione, una Repubblica democratica o, in realtà, si è trasformata in un totalitarismo rovesciato?

E se si è trasformata in un totalitarismo rovesciato, e diciamo subito che è proprio così, come è avvenuto, quando è cominciato, come e, soprattutto, cosa si può fare per uscire da questa situazione?
Per rispondere a queste domande iniziamo quindi la nostra analisi che, per comodità e fruibilità, sarà divisa in parti, ovvero video.

Infatti l’analisi richiederà un po’ di tempo perché, per capire come uscire da un problema, si deve capire come e quando questo nuovo e subdolo sistema di potere e di dominio si è creato, conoscerne le cause, saper individuare le modalità con cui questo si è imposto, e continua ad imporsi, nonché gli effetti che ha sulla nazione.

Infatti, se non si impara a conoscerlo e riconoscerlo, difficilmente si potrà capire quale potrà essere una possibile e valida soluzione al problema.
Abbiamo detto che il totalitarismo rovesciato, rispetto al totalitarismo classico, presenta alcune notevoli somiglianze, ma anche fondamentali differenze. Vediamole.
La prima fondamentale differenza è che I regimi totalitari del ‘900 erano alimentati da movimenti rivoluzionari il cui scopo era occupare, ricostruire e monopolizzare il potere statale.
Lo Stato era concepito come il centro del potere, da cui scaturivano le leve necessarie per la mobilitazione e la ricostruzione della società.
Chiese, università, organizzazioni imprenditoriali, mezzi di informazione e istituzioni culturali venivano occupate dal governo, oppure neutralizzate e soppresse.
Nel totalitarismo classico la conquista del potere totale era l’obiettivo consapevole di leader di precisi movimenti politici.
Ogni sistema era inseparabile dal suo Fuhrer o Duce.
Il totalitarismo rovesciato segue un percorso completamente diverso: il leader non è l’architetto del sistema ma il suo prodotto.

È il figlio prediletto e malleabile del privilegio, dei rapporti d’affari, un prodotto dei maghi delle pubbliche relazioni e dei propagandisti di partito.

Così, se i regimi totalitari classici erano fondamentalmente emanazione di un leader carismatico e il regime era inconcepibile senza la sua impronta, il totalitarismo rovesciato, viceversa, è sostanzialmente indipendente da un particolare leader che, peraltro non ha bisogno di un particolare carisma personale, questo perché non è il suo architetto, ma un prodotto del sistema e, in quanto tale, il sistema gli sopravvive.

Ma se il leader è il prodotto del totalitarismo rovesciato, chi è l’architetto di questa nuova forma di potere? Chi ne è alla guida?

Il totalitarismo rovesciato è guidato da poteri totalizzanti astratti e non dal dominio personale.
E qui veniamo alla seconda sostanziale differenza tra i due totalitarismi.

Nel totalitarismo classico infatti l’economia era subordinata alla politica. Nel totalitarismo rovesciato è esattamente il contrario: sono l’economia e la finanza che dominano sulla politica e che, quindi, la guidano.

E ciò ha diverse conseguenze.

Innanzitutto perché, se sono i poteri economici e finanziari a guidare lo Stato i suoi obiettivi non sono ovviamente quelli democratici della promozione del benessere dei cittadini o del loro coinvolgimento nei processi politici, ma la protezione delle élite e del profitto, ovvero del potere economico privato.
Per Wolin infatti il totalitarismo rovesciato è l’unione di Stato e impresa in un’epoca di declino della democrazia e di analfabetismo politico.

La democrazia si è cioè trasformata, ridimensionando il suo ruolo da principio fondante, a funzione sostanzialmente retorica all’interno di un sistema politico sempre più guidato non più da professionisti della politica, ma da uomini presi in prestito dal mondo degli affari, della finanza, dell’impresa, per non parlare dello stratagemma dei consulenti.

Attenzione però perché quello dell’uomo d’affari non è un concetto neutro: le sue radici affondano nella cultura del business, questi ha come obiettivo il business, il profitto e non il bene comune, e i suoi valori sono definiti dalle pressioni di un’economia competitiva che forza continuamente i limiti della legalità e delle norme etiche.

L’impresa è rappresentata dalla cultura antipolitica della competizione che prevale sulla cooperazione, la cultura della sopraffazione del rivale, nel lasciarsi dietro carriere devastate e comunità in frantumi.

Una cultura che accetta come un assioma il fatto che i massimi dirigenti debbano essere, innanzitutto, competitivi e orientati al profitto: la redditività dell’impresa come entità singola è più importante di qualsiasi sintonia con la società nel suo complesso.

Vedremo poi con alcuni esempi specifici come questa distorsione si sia realizzata in Italia.

Ma, per ora, basti pensare le grosse catene commerciali che rappresentano un potere invasivo e totalizzante: continuano a costruire presidi nelle comunità locali, annientando le piccole imprese che non riescono a competere, determinano prezzi, salari, modelli di consumo, il benessere e la povertà dei singoli, il destino di interi quartieri, città e nazioni.

Impossibile competere, perché molte grandi multinazionali hanno risorse che sfiorano, se non superano, quelle di quasi tutte le piccole nazioni del mondo.

Dunque una superiorità schiacciante che, però, persegue il profitto e non il benessere della società.
Questo accade quando il potere economico e finanziario dominano sul potere dello Stato.

Perché?

Perché il mercato smette di essere un’entità contrastante e distinta dal potere dello Stato diventando non il suo prolungamento ma, viceversa, diventando la mano invisibile delle politiche pubbliche.

E cosa vuol dire dare in gestione la cosa pubblica a uomini d’affari?

Innanzitutto è un dato di fatto che tra la prima e la seconda Repubblica la corruzione sia aumentata, e ciò sorprende molti.

Ma non deve sorprendere perché era una conseguenza assolutamente non solo prevedibile, ma certa.
La corruzione è quasi una costante nel mondo degli affari, dunque se un sistema politico viene affidato a uomini d’affari la conseguenza è che la corruzione ne diviene una delle componenti principali.

Certo, la corruzione vi era anche nel totalitarismo classico ovviamente ma, nel totalitarismo rovesciato, questa è endemica.

E così non deve sorprendere che, grazie a questa supremazia del potere economico e finanziario sullo Stato, l’esercizio del potere da parte di questi uomini d’affari sia costellato di reati e abusi come: frodi, menzogne, condotte ingannevoli, bonus straordinari a dispetto di fallimenti, e così via.

Comportamenti che, ovviamente, sono stati, e vengono, perpetrati senza che alla popolazione venga dato dallo Stato alcuno strumento utile e necessario per perseguire i suddetti reati. 

Ma, anche questo è normale.

Quando l’economia e la finanza dominano la politica è ovvio che alla popolazione non vengano date, dal legislatore compiacente a questo tipo di potere, vedremo poi come e perché, norme inadeguate per contrastarlo o renderlo responsabile.

Prendiamo ad esempio i reati ambientali, sono ancora oggi prevalentemente contravvenzionali e, quindi con sanzioni minime.

Se poi ci mettiamo quel capolavoro della prescrizione, le aziende sanno perfettamente che, anche ove si aprissero dei processi nei loro confronti, non rischiano nessuna condanna, ed anche questo ci viene continuamente confermato dalle sentenze dei tribunali.

Il prezzo di questo dominio, ovviamente, è il declino dell’etica pubblica.

Ma non solo.

L’assenza del conflitto di interessi non viene praticamente più invocata, e tanto meno rispettata come principio di virtù pubblica.

Ideali come: libertà accademica, il distacco della comunità scientifica dal mercato della politica, l’imparzialità dei giuristi, ecc., tutte cose che un tempo erano considerate valori indispensabili ai fini della scoperta della soluzione migliore su temi che investivano gli interessi e il benessere della società nel suo complesso, oggi non esistono più.

Per secoli politici e politologi, a cominciare da Platone nella Repubblica, hanno sottolineato come la caratteristica fondamentale di chi riceve in affidamento il potere pubblico sia l’esercizio di questo potere in modo disinteressato, e non per tornaconto personale.

Era il concetto del servitore dello Stato disinteressato e dedito soltanto il bene comune, un tempo nobile aspirazione.

Ora se si parla di questo ideale si viene derisi.

Il posto del servitore dello Stato è ora dell’uomo d’affari la cui lealtà è al business, ovvero al tornaconto personale, altrettanto a suo agio al Dipartimento della difesa, oppure dal fedele di partito, premiato proprio per la sua fedeltà che dovrà continuare a mostrare anche nel ruolo di funzionario pubblico.

Questa supremazia dell’economia sulla politica comporta anche che si assiste sempre più ai politici danno le dimissioni per accettare incarichi profumatamente retribuiti nelle aziende, mentre dirigenti delle aziende si mettono in aspettativa per dirigere dicasteri di governo e determinarne le politiche, o, ancora, alti ufficiali dell’esercito che vengono assunti dalle grandi imprese, diventano commentatori in tv, o si candidano alle elezioni.

Ma non sono certo queste le qualità che si chiedono chi giura di proteggere e difendere una costituzione caratterizzata da poteri limitati e da un sistema di controlli e contrappesi. 

Il presupposto cruciale della democrazia è, meglio dire era, che il governo fosse costituito da una serie d’istituzioni senza scopo di lucro la cui responsabilità fondamentale era promuovere il benessere generale.

Il criterio di valutazione era politico non economico.

Il bene comune non il bilancio.

I funzionari pubblici venivano descritti in termini democratici come servitori dello Stato i cui ranghi erano aperti a chiunque fosse qualificato e dedito a perseguire non fini personali ma difendere a migliorare la vita dei cittadini.

Il servitore dello Stato era lo strumento attraverso cui si realizzava la democrazia, i cui valori erano l’uomo prima di tutto, la collettività, l’eguaglianza.

Il servitore dello stato mirava all’eccellenza non alla superiorità. Sono due concetti molto diversi.

Ed aveva un compito, una missione che era il servizio disinteressato per il bene comune e non per l’accumulo di ricchezze.

Oggi non abbiamo più il servitore dello Stato, abbiamo l’uomo d’affari, con tutte le conseguenze che questo comporta.

Altro punto.

Una volta le aziende dipendevano dallo Stato per moltissimi aspetti: per appalti, finanziamenti e protezioni o per la creazione di opportunità di investimenti all’estero.

Oggi questa dipendenza si è ridotta drasticamente perché il potere economico privato ha avocato a sé sempre più funzioni e servizi pubblici, molti dei quali erano precedentemente considerati appannaggio del potere dello Stato.

Basti pensare alle privatizzazioni.

La privatizzazione è diventata la regola mentre l’intervento pubblico, contrario ai desiderata delle imprese, è diventata l’eccezione.

Attenzione però, perché la privatizzazione risulta essere una delle componenti principali di questa nuova forma di potere perché, andando a cedere funzioni sostanziali, un tempo esaltate come conquiste del popolo, uno Stato indebolisce non solo la sua componente politica, ma anche il suo stesso contenuto democratico.

Perché dico questo. Perché la conseguenza dell’espansione del potere privato, ma soprattutto delle imprese, è l’abdicazione selettiva, cioè nei vari comparti privatizzati, della responsabilità pubblica al benessere e alla tutela dei cittadini.

Abbiamo visto, e vediamo tutti i giorni, come il privato, anche grazie ad una legislazione compiacente, sia, nella maggioranza dei casi, assolutamente irresponsabile dei danni prodotti al bene comune e, viceversa, come sia assolutamente facilitato nel perseguire il profitto.

La strategia dei sostenitori della privatizzazione è, in primo luogo, screditare le funzioni di welfare bollandole come socialismo inefficiente e, quindi, cedere queste funzioni a un concorrente privato o privatizzarne una parte.

Le conseguenze delle privatizzazioni oggi sono sotto gli occhi di tutti, ma ricordiamo come andarono le cose, sia per capire meglio come opera il totalitarismo rovesciato, sia perché oggi si torna prepotentemente a parlare di privatizzazioni.

Il 29 gennaio 1992 venne emanata la legge n. 35/1992 (Legge Carli – Amato) per la privatizzazione di istituti di credito ed enti pubblici.

La motivazione ufficiale data ai cittadini per questa operazione di privatizzazione fu che, dato l’elevato debito pubblico che andava ridotto, vi era la necessità di vendere quelle aziende pubbliche in perdita che aggravavano la situazione.

Inoltre, per uno strano gioco del destino proprio nel momento in cui le imprese pubbliche vennero messe sul mercato la lira, a seguito di forti speculazioni, si svalutò.

Ricordiamo quel momento e cosa accadde.

Nel 1992 il finanziere americano George Soros lanciò un attacco speculativo contro la lira.

La nostra moneta, in una sola estate, perse il 20% del suo valore rispetto al Marco tedesco.

La Banca d’Italia, guidata da Carlo Azeglio Ciampi, nel tentativo di non svalutare la nostra moneta, aumentò per tre volte in sette mesi il tasso di sconto ma la manovra, che portò a bruciare 48 miliardi di dollari di riserve, si rivela assolutamente inefficace.

Il 13 settembre con una diretta televisiva, il presidente del consiglio Amato comunicò agli italiani la svalutazione della lira e l’uscita della nostra moneta dallo SME (Sistema Monetario Europeo).

Il Governo, per far fronte alla grave crisi economica, fu costretto a varare una manovra finanziaria da 93.000 miliardi che previde, tra le altre cose, la privatizzazione degli enti pubblici.

Ma non solo, anche l’aumento dell’età pensionabile, aumento dell’anzianità contributiva, blocco dei pensionamenti, minimum tax, prelievo sui conti correnti bancari, introduzione dei ticket sanitari, tassa sul medico di famiglia, imposta comunale sugli immobili (Ici), blocco di stipendi e assunzioni nel pubblico impiego, ecc.

Ma tutto ciò non bastò e, l’attacco speculativo contro la lira proseguì con conseguenze devastanti.

Soros, recentemente intervistato sull’attacco speculativo portato alla nostra moneta nel 1992[1] ha affermato: «L’attacco speculativo contro la lira fu una legittima operazione finanziaria. Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, che dicevano che la banca tedesca non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava saperle leggere. Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano”.

Certo, come dicevamo prima, l’uomo d’affari segue regole completamente diverse, segue il profitto non il bene comune, la sua lealtà è al business, non al benessere della collettività. Ecco perché è devastante anche solo pensare di poter gestire uno stato come un’impresa o sostituire il politico con l’uomo d’affari.

Ma andiamo avanti.

In questa situazione di lira svalutata iniziarono le privatizzazioni. Ottimo per gli acquirenti, meno per lo stato.

 Attenzione perché l’operazione di privatizzazione portata avanti dall’Italia è stata, secondo la relazione del 2010 della Corte dei Conti, che si ferma nella sua analisi al 2007, tra le più grandi al mondo: Fermandosi al 2007, le privatizzazioni italiane si collocano al secondo ed al quinto posto a livello globale, rispettivamente in termini di proventi e di numero di transazioni (Tabella 2). Per quanto riguarda i proventi aggregati, sopravanza l’Italia solo il Giappone che ha raccolto la maggior parte degli introiti attraverso poche operazioni di grandi dimensioni effettuate a metà degli anni ‘80 durante un periodo di mercato molto favorevole”.

Seconda al mondo per proventi e quanta per transazioni.

Ed Infatti il numero di aziende vendute, o meglio sarebbe dire, vista anche la svalutazione della lira, svendute fu impressionante.

Telecom, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, Agip Argentina, Cirio-Bertolli-De Rica, Pavesi, Nuova Pignone, SME, Aeroporti di Roma, Alfa Romeo Avio, Banca di Roma, SEAT, AEM, Alitalia, BNL, Banca MPS, Mediocredito Centrale, Finmeccanica, Autogrill, GS, EniChem Augusta, Italstrade, ecc.

Come noterete molte delle aziende che ho citato sono state poi, divenute private, protagoniste di molti scandali e conseguenti processi, senza particolari conseguenze per gli imputati naturalmente, a conferma di quello che dicevamo prima, ovvero di come il privato, dedito al business e al profitto sia portato per cultura a forzare continuamente i limiti della legalità operando attraverso la corruzione, frodi, inganni, ecc.

Nella versione ufficiale data dal governo di allora per operare queste privatizzazioni venne detto che le aziende da privatizzare dovevano essere quelle che rappresentavano una zavorra viste le perdite per lo stato italiano. Era vero? NO

Il 68% delle imprese privatizzate, appartenendo ai settori bancario-assicurativo e delle telecomunicazioni, era in attivo e dunque non rappresentavano una zavorra, ma una fonte di entrate costanti per le casse dello Stato.

Altra giustificazione che venne data dal governo era consentire il rafforzamento della grande industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali.

Anche queste motivazioni si sono, poi, rivelate pretestuose e mendaci.

Molte industrie, poi, hanno trasferito gli stabilimenti all'estero e dunque tutto hanno fatto tranne che consolidare gli assetti produttivi e le occupazioni nazionali.

Un’altra favole che venne raccontata ai cittadini all’epoca delle privatizzazioni del ’92 per giustificare era quella di voler favorire un azionariato diffuso. Ricordate? Chiunque può comprare azioni, controllare, andare ai consigli di amministrazione con chissà quali promesse. Nella realtà cosa è successo? Che le privatizzazioni si sono caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli investitori (o loro “cordate”).

Per non parlare poi delle OPA, che hanno permesso ad alcuni l’uomo d’affari di farsi prestare i soldi dalle banche per rastrellare la maggioranza delle azioni e, poi, hanno girato quell’indebitamento sull'azienda acquistata.

Chi ha fatto questa operazione, questi l’uomo d’affari ha quindi rivenduto tale acquisizione guadagnando sulla plusvalenza con la conseguenza che i manager, ovvero coloro che avrebbero dovuto risollevare le sorti di quelle aziende mal amministrate che rappresentavano un costo per lo Stato, hanno sostanzialmente comprato le aziende senza spendere una lira, le hanno rivendute e il loro guadagno non è stato tassato.

Ma ancora non basta, perché l'indebitamento con le banche, riversandolo sull’azienda è rimasto a carico degli utenti, che lo pagano gli utenti con tariffe maggiorate.

Ed eccoci ad un altro punto. Infatti ai cittadini era stato anche detto che la privatizzazione e liberalizzazione dei mercati avrebbe prodotto un calo dei prezzi e una migliore efficienza. Ma anche questo si è rivelato falso come conferma la Corte dei Conti.


La Corte dei Conti, in una relazione del 2010 sugli Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, evidenzia anche come: «Per quanto riguarda le utilities, c’è tuttavia da osservare che l’aumento della profittabilità delle imprese regolate è in larga parte dovuto, più che a recuperi di efficienza sul lato dei costi, all’aumento delle tariffe che, infatti, risultano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti degli altri paesi europei, senza che i dati disponibili forniscano conclusioni univoche sulla effettiva funzionalità di tali aumenti alla promozione delle politiche di investimento delle società privatizzate. Considerazioni analoghe possono valere anche per ciò che attiene agli effetti sul livello sia delle tariffe autostradali, sia degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clientela, tutt’oggi sistematicamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei».

In altri termini le maggiori entrate di queste aziende non sono state prodotte da una migliore efficienza del servizio, ma unicamente dall’aumento delle tariffe. Perché? Perché le maggiori entrate non sono state investite nell’azienda, come rileva la Corte dei Conti. Ma, questo poteva farlo anche lo Stato, poteva aumentare le tariffe senza migliorare l’efficienza e continuare ad incassare dal momento.

Ma anche questo era prevedibile e normale, al manager interessa il profitto non il miglioramento del prodotto o l’efficienza del servizio né, tanto meno, il bene comune.

Ma ancora non basta perché chi governava non ha neanche gestito bene questa immensa opera di privatizzazione, ricordiamo una delle più grandi al mondo, come sottolinea anche la Corte dei Conti: L’esame delle modalità con cui il processo di privatizzazione si è svolto evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito.

Così i prezzi sono aumentati, si sono persi posti di lavoro e chiusi impianti produttivi.

Il tutto a scapito della società ed a vantaggio delle aziende.

In altri termini le privatizzazioni cosa hanno prodotto? una socializzazione delle perdite ed una privatizzazione dei profitti.

Ovvero l’uomo d’affari è riuscito a creare un meccanismo che gli permette, se guadagna di intascare e se perde di chiedere che sia la collettività a pagare.

Ma anche le c.d. Liberalizzazioni hanno avuto impatto negativo, pensiamo solo alla normativa di liberalizzazione in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 che ha permesso a poche grandi catene commerciali di impossessarsi del 70% del mercato. Ciò ha comportato la moria delle piccole attività commerciali,

Il risultato di tutto ciò, ovvero in questi anni di politiche liberiste, è stato la crescita economica del nostro paese si è ridotta del 72% dal 1991 ad oggi, e la capacità di crescita della produzione industriale italiana è diminuita di oltre due terzi.

Le liberalizzazioni-privatizzazioni non hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica – dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – nelle mani di privati, con un conseguente netto impoverimento dello Stato e dei cittadini.

Ma non solo.

Infatti, come dicevamo prima, andando a cedere funzioni pubbliche sostanziali al privato uno Stato non solo si indebolisce politicamente ma, cosa ancora più grave, abdica alla sua funzione di responsabilità pubblica al benessere e alla tutela dei cittadini, funzione che non viene certo svolta dal privato.

Ci fermiamo qui. Nel secondo video prenderemo in esame le modalità e i passaggi cruciali con cui l’economia e la finanza si sono imposte sulla politica e sullo Stato italiano divenendo la mano invisibile delle politiche pubbliche



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